In questi ultimi anni si è fatto un gran parlare degli individui fragili.

Ma chi sono, questi sconosciuti?

La maggioranza la si riconosce facilmente, dall’età, dall’incedere, dal colorito o dalla magrezza insana.

C’è chi si regge ad un bastone o si muove solo grazie ad una carrozzina, chi va in giro con un fazzoletto in testa, chi deve sorreggersi ad un braccio amico, per fare pochi gradini.

E poi c’è chi, come me, è minato nella salute, ma fortunatamente mantiene una buona carnagione, peso giusto e schiena ritta, per lo più.

Tante volte, nel corso delle visite mi sono sentita chiedere: COME STAI?

Ed io: STO BENE!

Dall’altra parte: NO, TU NON STAI BENE. VIVI CON LE TRASFUSIONI!

Mi rendevo conto che la percezione dello stare bene era diversa dai due lati della scrivania.

Io mi focalizzavo puramente sulla mia qualità di vita, pur da malata.

I medici si riferivano alla diagnosi ed ai rischi che correvo, da malata.

Due facce della stessa medaglia: sopravvivere e far sopravvivere.

Poi, un paio di settimane fa, con mio marito eravamo in vacanza, e ci è arrivato un messaggio. Matteo era morto, a 27 anni.

Apparentemente, un molosso di buona salute: due metri, cento chili, sorriso contagioso.

Però, era nato con una malattia congenita, la sua era un’esistenza fragile alla quale non dava peso. C’era altro da fare: lavoro, parenti ed amici, viaggi, la magica Roma!

Qualche giorno di insospettabile febbre, e quella frenesia di tornare alla sua vita da giovane, più forte delle allarmistiche preoccupazioni.

Invece, la fragilità ha vinto sull’ottimismo.  All’improvviso, brutalmente.

Il lutto ci sbatte di fronte l’ineluttabilità, ci pone delle domande alle quali ogni tanto, nel fluire caotico delle giornate, ci avviciniamo, per poi scappare a gambe levate.

Ed io ripenso a quest’anima bella che ci ha lasciati, e do un nuovo valore alla parola fragile, che neanche la mia malattia era riuscita a trasmettermi.

In quanto esseri viventi, ogni nostra esistenza è una magnifica ampolla di cristallo, che può scheggiarsi o frantumarsi improvvisamente.

C’è chi ha tempo di osservare la propria scheggiatura farsi strada tra speranze, desideri e disillusioni. Ma alla fine siamo tutti uguali: camminiamo su una fune, e ci vuole coraggio a guardare nel vuoto.

E così per sconfiggere la tristezza, non penso più a Matteo, in quanto singolo, ma alle persone tutte; a quelle che in questo momento hanno paura ma vanno avanti, a chi sperimenta il batticuore del primo amore, a chi generosamente dona il proprio sangue per diffondere vita.

Penso a quest’ultimi, consapevole di essere qui, in questo istante, a scrivere ed a pensare a domani, solo grazie al loro gesto disinteressato.

Da tre anni, in assenza di terapie farmacologiche risolutive, la mia sopravvivenza è fatta di solidarietà e benevolenza. E poi, quando il momento arriverà, giocherò il mio jolly con il trapianto. Allora sarà mia sorella a donarmi una speranza.

Quando per la prima volta mi presentarono la biopsia, pensai che la mia esistenza fosse finita in quel momento. Non avrei mai creduto che mi si sarebbe aperto un mondo di affetto, comprensione e partecipazione, da parte di persone sconosciute o quasi. I donatori, i medici, gli infermieri, sono entrati nelle mie giornate a gamba tesa, ed ora sono diventati i miei compagni di squadra. Una squadra vincente, qualunque sarà il risultato.

Mi chiamo Viviana, sono una paziente del Gruppo Blu – reparto di Oncoematologia – Policlinico Tor Vergata.

 

 

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