La mia esperienza di malattia risale a 23 anni fa. Ne avevo 14 quando mi è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin. Allora le percentuali di guarigione erano molto diverse rispetto ad oggi (70% contro il 90 se non addirittura 95% di oggi), così come lo erano in parte le cure e la loro somministrazione (non esisteva il cvc, che oggi evita di distruggere le vene), i protocolli di comunicazione della diagnosi al paziente (parlo sempre di realtà pediatriche) e il supporto psicologico (inesistente). Tutto era affidato alla discrezione dei genitori, che a loro volta non avevano supporti di alcun tipo. E poi non c’era internet. Oggi un ragazzino di 14 anni ha la possibilità di accedere a tutte le informazioni che vuole con un clik. Allora bisognava andare in biblioteca e sfogliare l’enciclopedia medica, magari aggiornata a vent’anni prima… Così si viveva in un clima di “io so che tu sai che io so”, ma in realtà era molto difficile avere un dialogo aperto sulla propria malattia con i medici, con i genitori – per quanto, almeno i miei, assolutamente fantastici – e con il resto del mondo. Insomma, a 23 anni mi sono resa conto di avere ancora un sacco di domande inespresse, e ho pensato di andare a cercarmi le risposte dove tutto era iniziato. Stavo per laurearmi in Filosofia con indirizzo psicologico, e ho deciso di fare la tesi sulle ripercussioni psicologiche della malattia oncologica in età evolutiva. Per sei mesi mi sono trasferita a Genova e con il supporto di una straordinaria psicologa (che nel frattempo – finalmente! – era entrata a far parte del personale del reparto) ho frequentato il day hospital di oncologia del Gaslini.

Mi sono dedicata all’interpretazione dei disegni dei bambini, a come questi lasciassero trasparire il loro vissuto, e mi sono concentrata sull’importanza della comunicazione della diagnosi anche ai pazienti pediatrici. Ho seguito convegni, ho toccato con mano anche i lati più dolorosi dell’argomento, e con l’aiuto della psicologa ho potuto rielaborare pienamente la mia esperienza. La mia ultima visita di controllo, a dieci anni dal termine delle terapie, è stata pochi giorni dopo la laurea.
 
Un’ultima cosa. Molti ex pazienti, più che “guariti” si considerano dei “sopravvissuti”. Lo sono, lo siamo, è vero. Tutti sappiamo che la prima parola che si associa alla parola cancro è la parola morte. Tempo fa ho seguito un dibattito in tv. Non voglio entrare nel merito della scelta, ma ci sono donne che in base a un test di predisposizione genetica preferiscono farsi asportare entrambi i seni – ancora perfettamente sani – piuttosto che correre il rischio di affrontare un tumore, e tutto ciò che la malattia comporta. A livello fisico ma soprattutto psicologico. Perché queste donne sanno che il corpo può guarire dal cancro, ma hanno paura che la (loro) mente non lo farà mai. Preferiscono un’operazione invasiva, una mutilazione permanente, un comunque inevitabile trauma psicologico, alla sola possibilità di essere “una che ha avuto il cancro”. Questo vuol dire che i fantasmi legati al cancro sono ancora molto più forti della malattia stessa. Gli stessi fantasmi che solo qualche decennio fa impedivano perfino di pronunciarne il nome, che hanno portato a coniare espressioni come “un brutto male” o “il male del secolo”, che creano ancora imbarazzo e timore al solo parlarne.
Certo, a volte la ricerca corre più veloce dei pregiudizi, a volte no.
Ma sarebbe un passo avanti per tutti ricordarsi che il cancro non è più incurabile, e che sempre più spesso è guaribile. Vorrei che passasse sempre di più il messaggio che si può ANCHE guarire…
 
Un forte abbraccio a tutti!
 
Gloria
Magari ci fosse stato un sito come il vostro vent’anni fa! …  

7 commenti

  1. Stella ha scritto,
    Certo che pensare a 23 anni fa mi vengono i brividi, sai perchè? Perchè 23 anni fà la cura per la mia leucemia non esisteva ancora, è solo da pochi anni che hanno trovato la cura giusta (speriamo :-s)… Se consultassimo le enciclopedie, la risposta alla nostra malattia sarebbe: morte. Ma fortunatamente gli studi sono andati avanti, i modi di approccio verso la terapia, verso il paziente ed il personale medico, si sono evoluti, e speriamo che lo siano sempre di più. Già il semplice cvc, che a me non hanno messo, ma questa è un’altra storia, ti non ti fa patire la sofferenza del cambiare l’ago ogni 4 giorni e bruciarti tutte le vene.
    Perchè sei andata a cercarti le risposte? e andarti a laureare proprio sulle ripercussioni psicologiche della malattia? Non era meglio scegliersi un altro indirizzo? Le hai trovate le rispote che cercavi?
    Credo che tutti ci sentiamo dei “sopravvissuti”, perchè in fondo usciamo vivi da una dura battaglia, di dolore, di sofferenza, di perdite degli amici che purtroppo questa battaglia l’hanno persa.
    Prima era più difficile affrontare un tumore, anche perchè i risultati di uscirne vivi erano molto scarse.
    Io faccio parte di quella categoria che non ha mai chiamato con il proprio nome la sua malattia, perchè, nonostante siamo molto più evoluti, questa parola (vedi faccio fatica anche ora a scriverla) mette paura. Ho preferito darle un soprannome
    Un abbraccio a te Gloria

  2. Gloria ha scritto,
    Cara Stella, grazie per le tue domande.
    Cercare le risposte era davvero una necessità. L’aspetto fisico della “battaglia” (chemioterapie, vene, capelli…) era stato ovviamente devastante, ma una volta finite le cure la sofferenza psicologica è stata ancora più grande. Ero nel pieno dell’adolescenza, non avevo nessuno a cui rivolgere tutte le domande che mi ronzavano nella testa, mi sentivo persino in colpa per il dolore che provavo, perché in fondo ormai la tempesta era passata… Eppure non riuscivo a pensare ad altro. La mancanza di comunicazione è stata per me più devastante delle cure. Studiando psicologia all’università ho scoperto che per superare un trauma bisogna “ricordare, ripetere, rielaborare”, e così ho fatto! E ti assicuro che è stata la decisione migliore che potessi prendere, perché tenersi tutto dentro sarebbe stato sicuramente peggio. Ho dato un nome a tutto quello che mi è successo, ho imparato a pronunciare tutte le parole che ci fanno paura, ho fatto alal psicologa tutte le domande che non avevo mai avuto modo di fare a nessuno, ho scoperto che tutto quello che provavo era “normale”, anche il senso di colpa di noi sopravvissuti. Forse non mi sono spiegata bene quando ho parlato di questo aspetto. Anch’io mi sento una sopravvissuta, ma agli occhi degli altri vorrei essere prima di tutto una persona “guarita”. Per anni ho letto nello sguardo della gente una domanda inespressa: “Ma cosa ci fai ancora qui?”. Per questo vorrei che passasse il messaggio che si può ANCHE guarire.
    E comunque, dopo la tesi, il pensiero della malattia è stato sempre meno dominante e angosciante. Ora sono passati molti anni, è vero, ma sono sicura che se non avessi seguito istintivamente quel percorso le angosce sarebbero ancora annidate da qualche parte. Portarle allo scoperto è stato soltanto il modo migliore per affrontarle!

    Inserito il 17 Febbraio 2009 alle 18:25

  3. Stella ha scritto,
    Scusami Gloria, non volendo di ho riempito di domande, ma mi sono uscite spontanee, forse la curiosità di sapere alcune cose della tua esperienza.
    Avevo capito bene sul fatto della sopravvivenza, e come hai detto tu, tutte quelle domande a cui tu hai voluto trovare delle risposte, credo sia normale, e rientra nel genere umano.
    Ma cosa ci fai ancora qui, è troppo forte come domanda. Mi viene in mente a quando la gente mi incontrava per strada, dopo che erano venuti a conoscenza del fatto, e trovandomi abbastanza bene fisicamente, sembravano increduli di quello che stessi passando. Ed il sentire molte volte, che la mia famiglia aveva esagerato nei racconti, bè credimi questo mi mandava il sangue al cervello, perchè lo so io come sono stata. Molti si fermano all’apparenza, magari se mi avessero visto sul letto d’ospedale, non si sarebbero permessi di dire certe cose. Ma andiamo oltre. Forse perchè solo chi ci è passato può capire?
    Comunque Gloria, grazie per averci raccontato la tua storia, e sapere che sei guarita ci da una speranza in più e ci permette di andare avanti con ottimismo
    Inserito il 19 Febbraio 2009 alle 14:09

  4. Gloria ha scritto,
    Ma figurati! Io avrei dato non sai cosa per avere la possibilità di confrontarmi con qualcuno che avesse vissuto la mia esperienza, e quindi mi fa piacere poter magari essere in qualche modo utile raccontando la mia Capisco quello che intendi parlando del rapporto con gli altri. Sai, magari mostrarsi increduli per il tuo aspetto era un modo per essere gentili e dirti che ti trovavano comunque bene…Negli anni mi sono resa conto che spesso sono gli altri ad essere molto più imbarazzati di noi nell’affrontare l’argomento. Non sanno bene come comportarsi, e involontariamente fanno delle gaffe… Noi poi siamo sicuramente ipersensibili nei confronti delle loro reazioni: se si mostrano troppo preoccupati, o troppo poco… E’ tuuto legato al peso che ha la nostra malattia nell’immaginario collettivo, perché si muore anche d’infarto, ma “infarto” è una paraola che tutti pronunciano senza alcun problema, che l’abbiano avuto o meno…
    E’ un discorso lungo, non vorrei annoiare…. :-))
    Grazie a voi per il vostro impegno, per l’entusiasmo e per tutte le iniziative che fate e farete. La speranza e l’ottimismo sono importantissimi!!!
    Un forte abbraccio
    Gloria

    Inserito il 19 Febbraio 2009 alle 15:45

  5. Mela ha scritto,
    Grande Gloria!
    Hai ragione quando dici che gli altri sono più imbarazzati di noi a parlarne; siamo noi malati (o ex-malati) a sapere come stiamo, a sapere che anche in periodi non proprio floridi possiamo comunque permetterci la risata spensierata e le “solite 4 chiacchiere” con le amiche, senza che la malattia interferisca. E, aggiungo per esperienza, anche quando sappiamo come ci si può sentire da “malati”, subiamo lo stesso imbarazzo nei confronti di chi sta male a sua volta. Qui si riesce a parlare perchè è un posto creato appositamente, ma come ci sentiremmo a parlare tra di noi, se non fosse tutto incentrato sull’argomento?
    Ricordo quando una mia amica, vedendo la cicatrice che ho sul collo (che tutto sembra, fuorchè una cicatrice, uffi!), mi fa, maliziosa: “Cos’è quel segno sul collo???” e io, che in quel momento non ho recepito il senso della frase (purtroppo!!! Sennò avrei inventato le peggio cose!!! ), le faccio, con la faccia a punto interrogativo: “e che dovrebbe essere??”. A quel punto lei, rendendosi conto della pseudo-gaffe, inizia a scusarsi, e io giù a dirle che non mi importava nulla e che anzi, sfidavo chiunque a lasciarmi un segno così permanente!
    Vabbè, chiudo sennò scrivo un tema come al solito!
    Un abbraccio a tutte!
    Inserito il 20 Febbraio 2009 alle 18:17

  6. M.Paola ha scritto,
    Ciao Gloria,
    ce ne fossero di testimonianze come la tua che danno speranza e fanno bene, non solo ai pazienti oncologici, ma anche ai loro familiari.
    Perchè, come dici tu, da questo “brutto male” si può anche guarire, e saperlo dalla viva voce di quelli che ce l’hanno fatta, dà una carica in più a chi si trova ad affrontare, sia direttamente sia indirettamente, queste situazioni difficilissime.
    Come mai invece, secondo te, molte persone guarite o “miracolate” preferiscono cancellare quel brutto ricordo? Non è forse meglio parlarne, e non solo con percentuali, ma direttamente ex malati con neo malati?
    Ciao e grazie.

    Inserito il 27 Febbraio 2009 alle 18:04

  7. Gloria ha scritto,
    Ciao M. Paola! Non sono sicura di essere in grado di rispondere alla tua domanda. Ognuno reagisce ai dolori della vita in modo diverso. Dipende dal carattere, penso, e chissà da quante altre cose. Non sono una psicologa, ma da qual poco di psicologia che ho studiato so che negare o rimuovere il proprio trauma non è mai la soluzione migliore. Ma in ogni caso posso parlare solo per me: so che, quando ero malata, mi è molto mancata la possibilità di confronto. Avevo 14 anni al momento della diagnosi, più di 15 alla fine delle terapie, e in un ospedale pediatrico come il Gaslini sono sempre stata la più grande tra tutti i pazienti che mi capitava di incrociare. Anche quando tornavo per i controlli, ero circondata da bambini, anche piccolissimi. Mi avrebbe fatto piacere incontrare dei coetanei, che sicuramente c’erano, ma non è mai successo. E naturalmente mi avrebbe fatto piacere incontare qualcuno che mi dicesse “ci sono passato, ti capisco”. Ma non è mai successo neanche quello. Forse è per quello che adesso, se ne ho l’occasione, come in questo caso, lo faccio.
    (grazie anche a te, quindi…)

    Inserito il 28 Febbraio 2009 alle 23:43

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