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Premessa

 

Durante il periodo più difficile della mia vita, ho trovato grande aiuto e conforto nella scrittura.
Scrivere mi ha aiutata a esternare le difficoltà, i dolori, ma anche le gioie e i momenti di vittoria, senza caricare ulteriormente le spalle di chi mi è stato vicino.
Scrivere ha voluto dire tenere la mente occupata, pensare alla malattia filtrando le emozioni attraverso la ragione.
Prendere una penna e un foglio di carta come lancia e scudo con i quali difendermi, ma attaccare allo stesso tempo.
Scrivere sempre, di tutto e di tutti, ma scrivere, soprattutto di me stessa, dei miei sentimenti e delle mie emozioni, dei momenti tristi e dei momenti sereni, della paura, ma anche della felicità.
Spero che le mie parole possano essere d’aiuto a tutte le persone che come me dovranno affrontare questo percorso così complicato e pieno di ostacoli.
Parentesi aperta” perché la mia vita, dopo essersi fermata un istante, è ricominciata con più vitalità e passione di prima.
Il momento della paura
E’ settembre il tempo è bello sto facendo quattro chiacchiere con mia madre nell’attesa che mi dicano che posso andare a casa e quando ritirare il referto della mammografia.
Tutto è normale, tutto va bene, sono un po’stanca, ma ultimamente mi capita spesso di essere stanca, in fondo ho dovuto lavorare parecchio, Lorenzo, mio marito è stato operata di ernia al disco da due mesi e io ho avuto molto da fare, per questo mi sento stanca, penso io.
Aspetto e non “sospetto”; perché mai dovrei sospettare qualche cosa?
Ho 48 anni , due figli stupendi, un marito che mi ama, un lavoro che mi piace, una madre che mi è sempre vicina, amici sinceri, cosa mi può capitare?
Nulla, pensavo io fino a quel momento, nulla secondo me avrebbe mai potuto turbare la mia serenità, ma non era così, i minuti seguenti sarebbero stati i più terribili della mia vita, ma soprattutto avrebbero cambiato la mia esistenza, avrebbero sconvolto le mie sicurezze e cambiato profondamente il mio modo di essere.
“Signora per cortesia può accomodarsi ancora per una verifica?”
-Cosa sarà successo, forse mi sarò mossa,-  ancora non pensavo a nulla, ancora ero tranquilla, ma ad un tratto il dubbio si è insinuato nella mia mente, le infermiere avevano un sorriso che prima non c’era, la gentilezza si era trasformata in apprensione.
Perché tutti mi guardavano con un sorriso forzato?
Pochi secondi e l’avrei saputo.
Il medico mi chiama nello studio,  non mi guarda neppure in viso, come se io dovessi sentirmi in colpa per ciò che lui avrebbe dovuto dirmi.
Dirmi cosa?
Dirmi che avevo un tumore, che il tumore era di dimensioni piuttosto grosse, che la situazione era molto grave e in modo piuttosto cinico scuoteva la testa.
Non ho più rivisto quel medico, anche se mi ero ripromessa di andarlo a trovare per fargli capire che, quando si parla della vita delle persone, sarebbe meglio almeno guardarle negli occhi, perchè chi sta dall’altra parte ha bisogno di essere sostenuto.
A quel punto la mamma che ha sentito tutto è sconvolta, io non so come mi sento, sembra che tutto stia succedendo ad un’altra persona, è come se io, fuori dal mio corpo, stessi vedendo un brutto film, ma non si tratta di un film, si tratta della mia vita, prendo la macchina, mi dirigo verso casa, sono circa 10 Km. ho tempo per riflettere, ho tempo per rendermi conto che tutto sta succedendo a me e ad un semaforo rosso mi fermo, guardo il mio seno destro e con rabbia dico che comunque avrei vinto io!
Arrivo a casa, mio marito informato per telefono da mia madre, mi viene incontro e mi abbraccia in quell’abbraccio c’è tutto il suo amore, ma non può dire nulla perché mia figlia, la mia splendida figlia, sta venendo verso di noi e io non voglio che abbia una notizia così terribile in questo modo.
Tutto torna alla normalità, pranziamo, dopo il pranzo ognuno riprende le sue attività, io vado in giardino e finalmente piango, piango disperatamente, sono sola e posso farlo, piango e parlo con mio padre, si con papà che è morto da 16 anni, ma che non mi ha mai lasciata realmente, perché lo sento sempre vicino a me come se fosse lui il mio angelo custode.
Piangere e parlare con papà mi calma, mi tranquillizza e quindi decido di prendere la situazione in mano.
Io sono artefice del mio futuro
Per prima cosa devo cercare un medico, un ospedale che si occupi di questi problemi, non posso andare ovunque o da chiunque, non posso rischiare di dire in futuro:”se avessi fatto….”
L’istinto e l’esperienza di una cugina mi hanno portata a chiamare l’Istituto Europeo Oncologico.
Sì, ma una volta che hai trovato il numero cosa fai?
Di chi chiedi?
In quel momento ho scelto un nome e ho chiesto un appuntamento.
Quando ho saputo di avere un cancro potevo fare ogni cosa, ma la mente mi portava sempre lì, il mio pensiero poteva per una frazione di secondo cambiare direzione, ma poi tornava sempre al punto di partenza e da lì vagava per cunicoli bui dove le vie d’uscita erano veramente difficili da trovare.
Il medico che avevo scelto, in quei giorni non si trovava in Italia quindi l’appuntamento non poteva essere per il giorno successivo, come avrei voluto, ma dovevo aspettare cinque giorni.
Mi sembrava un’eternità, ma ragionando e riflettendo dovevo ammettere che non sarebbe cambiato nulla che, cinque giorni in più o in meno non potevano fare la differenza e, in effetti, per il fisico non cambia nulla, ma per la mente cambia, per la mente sono cinque giorni, ben centoventi ore di tensione.
In quei cinque giorni avrei fatto tante cose, avrei visto tante persone che dando un’occhiata alla mia mammografia mi avrebbero detto cose in più, non mi aspettavo cose diverse, non mi aspettavo che qualcuno mi dicesse “non è vero niente, lei signora sta benissimo”, ma avevo bisogno di notizie in più.
Quando se ne ha bisogno, spesso ci si rende conto di quanto si è ignoranti su un certo argomento, sul tumore alla mammella sapevo parecchio, ma nulla in confronto a quello che avrei imparato poi.
Ho sempre avuto bisogno di sapere e di sapere senza filtri o censure.
Pochi erano a conoscenza di quello che mi stava succedendo, anzi pochissimi, non volevo suscitare pietismi, non volevo che gli altri mi guardassero con occhi diversi o mi riservassero trattamenti differenti solo perché avevo il cancro e poi c’erano i miei figli: Paolo 20 anni e Giorgia 15 non volevo che sapessero quello che mi stava succedendo da altri, volevo essere io a spiegare loro, con parole mie quello che nei mesi successivi avrei dovuto affrontare, ma nemmeno io sapevo ancora cosa mi aspettava e quindi volevo tutelarli, meno persone erano a conoscenza del fatto e meno possibilità ci sarebbero state che ne venissero a conoscenza nel modo sbagliato.
Ho continuato ad andare a lavorare come se nulla fosse successo, io faccio l’insegnante di educazione musicale, in quei giorni nel mio modo di stare in classe c’era una particolare calma, riuscivo a gestire le situazioni più complesse con una certa facilità, i problemi mi sembravano solo “falsi problemi”, come direbbe il mio caro amico e collega Cecco, e quindi non facevo nessuna fatica a gestire gli alunni.
Non volevo avere più problemi di quanti non ne avessi già, quindi decisi che di notte non potevo assolutamente far lavorare la mia mente, ma dovevo riposare, dormire e avere la forza necessaria per affrontare la giornata successiva.
Il modo più semplice era quello di prendere un tranquillante tutte le sere e non pensarci più   -problema risolto-.
Io credo che ognuno di noi abbia il suo angelo custode che ci aiuta a fare le cose giuste al momento giusto, quindi due giorni dopo incontro Renata, una carissima amica, che in quel momento viveva una situazione piuttosto difficile, ma che non le ha impedito di vedere nei miei occhi un velo di tristezza e quindi ho spiegato a lei cosa mi stava succedendo.
Renata è una persona che si occupa spesso dei problemi degli altri, è una di quelle persone che troviamo nelle piazze a vendere arance piuttosto che azalee in favore della ricerca e quando c’è qualche manifestazione di beneficenza lei è presente.
Dopo avermi ascoltata e probabilmente capito che, dietro l’apparente serenità, c’era tanta tensione mi disse: ”dammi un po’ di tempo per vedere se riesco a fare qualche cosa”.
Dopo due ore avevo un appuntamento per lo stesso pomeriggio con il professor Umberto Veronesi.
Non potevo crederci mi sembrava di toccare il cielo con un dito non avrei dovuto aspettare oltre e sarei stata vista da colui che io ritenevo il migliore e che non avevo cercato solo perché non sapevo come fare e perché mi sembrava irraggiungibile (ho scoperto più tardi che il professore è molto disponibile e si può avere un appuntamento con lui con  facilità, nei limiti del tempo che ha a disposizione).
Di corsa informavo mio marito e dopo aver pranzato insieme ci siamo diretti a Milano nello studio del Professore.
L’incontro con il professore
Ricordo che ero molto tesa, in quel momento non pensavo al tumore, pensavo che sarei stata visitata dal professor Veronesi e che se mai ci fosse stata una soluzione lui l’avrebbe trovata.
Nell’attesa parlavo con mio marito dei nostri figli, di quello che avremmo fatto nei giorni successivi e mio marito mi tranquillizzava sul futuro.
Ad un certo punto l’infermiera con molta gentilezza mi invitò ad entrare nello studio, mi accolse un uomo distinto, con un’espressione rassicurante e con calore umano mi invitò ad accomodarmi, era il professore.
Mi colpì subito il fatto che quando si rivolgeva a me mi chiamava con il mio nome di battesimo, non con un anonimo “signora”, ma Lucia; mai il mio nome è suonato alle mie orecchie così dolcemente, il suo modo di parlare era  rassicurante, non mi raccontava “favole” mi diceva la verità, una verità fatta di problemi e di speranze e soprattutto la percezione che avevo in quel momento era quella che la persona che mi parlava  stava pensando solo a me e per tutto il tempo che sono stata in quello studio mi ha sempre guardata negli occhi facendomi sentire al centro dei suoi pensieri.
Sono uscita con la certezza che dovevo affrontare un problema sicuramente serio, ma con la consapevolezza che avrei potuto fare molto per me stessa.
Tanta speranza, ma sempre con i piedi per terra, la paura aveva lasciato il posto al desiderio di cominciare questo cammino contro il cancro, alla voglia di combattere, di lottare, di fare, di provare a distruggere tutto ciò che di negativo il mio corpo stava producendo senza il mio consenso.
Questo, in effetti, è un aspetto che mi ha sempre dato dei problemi; il fatto di non essere io a stabilire ciò che faceva il mio corpo, e che in modo del tutto indipendente dalla mia volontà alcune cellule potessero decidere di impazzire.
Sono uscita dallo studio con un programma di esami e accertamenti che avrei dovuto fare nel giro di pochi giorni.
Ho trovato il coraggio di parlare con i miei figli, ho spiegato loro cosa stava succedendo, dando però più spazio alla speranza che non ai problemi, credo di aver trovato le parole giuste perché nei loro occhi ho sempre visto la serenità.
In Istituto ho fatto tutto ciò che dovevo nel più breve tempo possibile, poi arrivò la telefonata che mi diceva che il 5 ottobre il professore mi avrebbe operata.
Non era passato neppure un mese da quel giorno di settembre, ma mi sembrava una vita, non era passato un mese ed entravo in Istituto per l’intervento.
Per tutta la giornata c’è stata un’intensa attività, tra colloqui con l’anestesista, esami ed altro è arrivata  sera, ho salutato mio marito perché volevo che fosse a casa con i miei figli, non volevo che fossero soli proprio la sera prima del mio intervento.
Non appena uscì dalla stanza mi resi conto che avevo commesso un errore terribile, non volevo stare sola in quella stanza, molto accogliente ben arredata, ma ero sola con le mie paure, però, l’amore per i miei figli ha avuto il sopravvento.
Avrei potuto chiamare mio marito dirgli di tornare in Istituto, dirgli che non volevo restare sola, che volevo averlo accanto, ma non potevo pensare ai miei figli soli, quindi non feci quella telefonata.
Mi ero portata un portaritratti con le foto dei miei due tesori, dei libri, un lettore CD con un CD preparato apposta per me da mio figlio, avevo sistemato tutte le cose sul grande ripiano che c’era vicino al letto, mi sembrava di essere un po’ a casa, ma mi sentivo molto sola e ad un certo punto ho cominciato a piangere, non riuscivo a smettere, ma anche in questo caso le lacrime hanno portato tranquillità al punto che senza saperlo mi sono addormentata.
Al mio risveglio c’era una dolce infermiera che mi diceva ciò che dovevo fare prima dell’intervento e contemporaneamente dalla porta apparve mio marito, l’ho abbracciato a lungo, doveva essere un abbraccio che saldava il conto con la solitudine della notte appena trascorsa.
Avevo un aspetto orribile gli occhi erano gonfi per il pianto, ma mi sono sistemata e insieme ci siamo incamminati verso l’ingresso della sala operatoria.
Ho salutato mio marito, mi sembrava di partire per un lungo viaggio in realtà saremmo stati lontani solo poche ore, ma erano poche ore che ci avrebbero potuto dare o no un futuro ancora insieme.
A parte l’aspetto orribile non mi sentivo male e soprattutto non avevo paura, mi sono stesa sul lettino e ho anche scherzato con l’infermiera e con l’anestesista sulla difficoltà che c’è da sempre a trovarmi le vene, ricordo il professor Veronesi che mi salutava con il suo sorriso rassicurante di quelli che  tranquillizzano per il fatto che capisci che, non solo, sa esattamente quello che sta facendo, ma lo sta facendo per te e quindi sai di essere in mani sicure.
Ricordo di aver visto, prima di chiudere gli occhi, tante persone intorno a me, poi il buio.
Al risveglio mio marito era lì con mia madre, mi sorridevano, sentivo male, ma non era troppo, tutti erano gentili, tutti mostravano un’infinità di attenzioni nei miei confronti, ma ero abbastanza confusa non sapevo come erano andate le cose, mio marito mi  diceva che il professore, lo aveva rassicurato, ma non sapevo se ciò corrispondesse a verità.
Credo che prima di un intervento del genere si debba fare un accordo con una persona di cui ci si fidi ciecamente che preveda proprio il fatto che nulla sarà nascosto, sono convinta che ciò che si fa per pietà non sia mai corretto, meglio una verità difficile da accettare che una bugia che alla fine sarà smascherata e renderà quindi ancora più difficili le cose.
Però mi sentivo bene, il dolore c’era, ma mi sentivo bene, volevo sentirmi bene, volevo allontanare da me tutti i brutti pensieri che avevo fatto, volevo cancellare le tensioni, volevo tornare ad essere io, io senza il cancro.
Dopo qualche ora chiesi a mio marito di darmi la borsa con i trucchi, sì proprio i trucchi per il viso, volevo togliere l’espressione di sofferenza e la stanchezza che erano invece molto evidenti.
Dovevo sistemarmi perché i miei due gioielli sarebbero arrivati nel pomeriggio a trovarmi e non dovevano vedermi in quelle condizioni e anche perché anch’io non volevo sentirmi diversa dal solito.
Una borsetta di trucchi può fare miracoli, una passata di phard un po’ di colore agli occhi e mi sono trasformata, ero accettabile, presentabile, con un aspetto che non avrebbe preoccupato nessuno.
Paolo e Giorgia avrebbero visto la mamma esattamente come l’avevano lasciata il giorno prima, questo mi ha sempre dato la forza necessaria.
I miei figli sono la cosa più importante, sono più importanti della mia stessa vita, la loro felicità, la loro serenità è la cosa che più di ogni altra mi sta a cuore e mi sentivo un po’ in colpa per il momento così difficile che stavo facendo vivere loro, il minimo che potessi fare era proprio sforzarmi per far apparire tutto normale.
Il ritorno a casa 
Tornare a casa mia è stato sicuramente un momento positivo, anche se non mi sentivo molto a mio agio con il drenaggio; quella specie di appendice (quasi una coda!) che mi era stata necessariamente lasciata dopo l’intervento.
Mia figlia, per farmi sentire più “a mio agio” mi diede una delle sue borse di stoffa ricamate con tanti strass molto carina per metterci il sacchetto che conteneva la sacca con il siero.
Volevo tornare alla normalità, quindi, per prima cosa andai dal parrucchiere per sistemare i capelli.
Ho sempre pensato che i capelli fossero il punto di forza della mia femminilità e non volevo sentirmi sciatta, già mi sentivo “mutilata” nel mio essere donna fisicamente, non volevo sentirmi diversa anche mentalmente.
I giorni che seguirono furono strani, da un lato non pensavo alla malattia, dall’altro ero impegnata in una estenuante ricerca su tutto ciò che potesse offrirmi informazioni sul tipo di tumore che mi era stato asportato.
Non avevo ancora il risultato dell’esame istologico, ma avevo il risultato del Tru cut, sul quel foglio però, purtroppo per me, c’erano solo  sigle e numeri ai quali non sapevo dare significato, ma so usare bene internet e ho pensato che potesse essere la soluzione alle mie curiosità.
In realtà internet è uno strumento straordinario, ma per interpretare ciò che ci si trova scritto è indispensabile avere anche gli strumenti cognitivi adeguati, le conoscenze in campo medico che io non ho, quindi risultava estremamente pericoloso perché, non essendo in grado di comprendere a fondo rischiavo di complicarmi la vita e confondermi ulteriormente le idee.
Per fortuna non mi sono colpevolizzata, ho pensato che, se qualcuno che non sa nulla di musica, materia che io insegno, cerca su internet ad esempio in cosa si risolve la settima di dominante dell’accordo di Si bemolle maggiore, forse capisce, quanto io in quel momento capivo di T2, g3, ecc. relativi al mio tumore.
Ho abbandonato l’idea di capire da sola, com’era giusto che fosse e alla prima medicazione in ospedale ho chiesto informazioni, ma c’era un problema, non riuscivo, o più probabilmente non volevo,  seguire le spiegazioni, dopo le prime parole era come se spegnessi l’interruttore e non riuscissi più a seguire, perdevo la concentrazione, annuivo, ma in realtà non stavo neppure ascoltando.
Tutto questo è durato a lungo, infatti, è solo ora che è passato più di un anno che sono riuscita a farmi spiegare tutto in modo dettagliato.
Adesso conosco perfettamente il significato d’ogni sigla e d’ogni termine, non mi sento diversa da prima, ma adesso so.
La radioterapia
Il primo trattamento che ho fatto è stata la radioterapia, prima in sala operatoria e poi, un ciclo dopo tre settimane dall’intervento.
Si trattava di una  operazione molto semplice: arrivavo in Istituto, se non c’erano problemi o ritardi entravo in uno spogliatoio,  mi mettevo la vestaglietta che mi avevano dato il primo giorno,  gli infermieri mi sistemavano sul lettino e tutto poi durava pochissimi minuti, non mi sentivo malata, mi sembrava di essere una persona “normale” che stava facendo delle cure nemmeno troppo invasive (questa era la sensazione!) ma stavo bene, scherzavo con le infermiere e gli infermieri che devo dire erano adorabili, sempre con il sorriso sulle labbra sempre pronti a dire una parola gentile.
Per tredici giorni consecutivi (escluso il sabato e la domenica) mi sono recata in radioterapia senza problemi, mi sono sentita solo un po’ stanca verso la fine del trattamento, ma nulla di particolare, il vero problema è stata una necrosi dei tessuti provocata da un ustione del tutto imprevedibile, che non dava dolore, ma che avrebbe determinato un grosso problema nei  mesi successivi.
Era passato anche questo momento e ancora non mi sentivo malata.
Andavo in Istituto accompagnata, più per far piacere a chi mi accompagnava e per stare in compagnia che per effettiva necessità.
Continuavo ad andare dal parrucchiere, per essere in ordine, mi vestivo con attenzione come avevo sempre fatto, confesso che mi fa piacere curare il mio aspetto fisico e che mi piace guardarmi allo specchio e piacermi, non me ne vergogno e in quel periodo mi guardavo, mi piacevo e non mi sentivo malata.
L’unico problema si presentava la notte: la notte mi metteva ansia, di notte i pensieri si fanno insistenti nella mente ed è troppo difficile spegnere l’interruttore, il buio non mi piaceva, di notte avevo paura, non so bene di cosa, ma di colpo mi mancava l’aria, mi sentivo soffocare, avevo bisogno di compagnia e la mia compagnia era mio marito che pazientemente stava sveglio e mi parlava con calma e dolcezza sino a quando non mi ero addormentata.
A volte penso che sia più difficile l’esistenza per chi sta vicino ad un malato di cancro che non per il malato stesso, io dovevo in qualche modo combattere, mio marito poteva solo assistere giorno per giorno al dolore sapendo che non avrebbe potuto materialmente fare nulla.
Il suo supporto è stato decisivo, ma la sensazione d’impotenza penso l’abbia avuta.
Non mi sentivo ancora malata, ma di lì a poco tutto sarebbe cambiato, di lì a poco avrei capito cosa vuol dire avere il cancro.
Di lì a poco avrei cominciato la chemioterapia.
La chemioterapia
La prima volta l’oncologo mi spiegò nel dettaglio quale terapia avrei dovuto fare viste le caratteristiche del mio tumore.
Non riuscii a capire nulla, dopo la parola “chemioterapia” la mia mente ha chiuso i battenti, erano i primi giorni di novembre e si prospettava la fine della terapia per maggio.
Maggio era terribilmente lontano, quindi  mi sono chiusa in me stessa fingendo però di seguire, annuendo ogni tanto, ma io non ero li.
Io ero proiettata a maggio, mancava un tempo che mi sembrava infinito, mancava un tempo che avrebbe accorciato la mia vita,  pensavo che non sarei stata in grado di sopportare tutto ciò.
In quel momento, sì  avevo capito cosa mi stava succedendo, sì avevo capito  che razza di malattia è il cancro.
I giorni che seguirono li ricordo con dolore, perché mi sentivo così vulnerabile, così malata!
Arrivò il primo incontro durante il quale mi furono spiegati tutti i possibili problemi che la chemio avrebbe potuto darmi, di sicuro c’era che tra il primo e il secondo ciclo avrei perso i capelli.
I miei splendidi capelli, può sembrare stupido o superficiale pensare ai capelli in un momento simile, forse è così non so, so che per me era come se la malattia volesse portarmi via tutto, non solo la salute, ma anche la mia identità.
Pensavo che quando ci si ammala e ci si cura, durante la cura ci si sente sempre un po’ meglio, anche poco, ma sempre un po’meglio, nel mio caso, nel caso di tutte le persone malate di tumore, la cura, mentre la fai, ti fa stare peggio della malattia, ti sembra di morire un po’ alla volta.
Questi erano i miei pensieri di quei giorni, ero triste, apatica, come non lo ero mai stata.
Questa condizione per fortuna durò poco, ad un tratto mi sono chiesta se stessi impazzendo, io che avevo sempre affrontato i problemi di petto che non mi ero mai nascosta di fronte alle difficoltà, mi stavo piangendo addosso, stavo facendo esattamente quello che non dovevo fare, stavo perdendo il buonumore, non era possibile, non era giusto, non era da me.
Cos’ho fatto?
Ho preso la rubrica del telefono per cercare un negozio che vendesse parrucche, sono andata dal mio farmacista e mi sono rifornita di tutto ciò che in Istituto mi avevano prescritto contro la nausea, ma non solo, mi sono procurata tutti i rimedi naturali che ho trovato e che avrebbero potuto aiutarmi a stare meglio, avevo deciso finalmente che dovevo fare tutto il possibile per vivere e non sopravvivere durante quel periodo.
Il giorno della prima chemio era arrivato, ho chiesto a mio marito se  la prima volta poteva accompagnarmi lui, in macchina non abbiamo parlato di quello che avrei fatto, abbiamo parlato delle vacanze natalizie che di solito, con i ragazzi, trascorriamo a Selva in Val Gardena e delle date della terapia, per cercare di non dover tornare a casa a metà della vacanza.
Purtroppo quando mi trovai alla visita per iniziare la terapia, mi dissero che dovevamo rimandare di una settimana perché la necrosi, data dalla radioterapia, aveva bisogno di altro tempo per sistemarsi e quindi sarei dovuta tornare la settimana successiva.
Fu una grande delusione perché a quel punto mi sentivo pronta e una settimana in più voleva dire terminare una settimana dopo il previsto, in più, con il senno di poi, la ferita non si sarebbe sistemata, anzi dopo il primo trattamento si aprì e da quel momento cominciò un problema ulteriore.
A casa era tutto pronto: pastiglie, punture, cerotti antivomito, cerotti di aromaterapia allo zenzero, gocce omeopatiche e la parrucca, sì l’avevo acquistata molto prima del necessario perchè avevo bisogno di sapere che tutto sarebbe stato pronto al momento giusto.
Era di un colore simile al colore dei miei capelli, con un taglio simile al mio e mi sembrava che mi stesse abbastanza bene anche se non erano i miei capelli.
Mi dava sicurezza avere tutte queste cose a disposizione, mi dava sicurezza sapere che in caso di necessità tutto era al suo posto.
Poi  il giorno arrivò veramente, era il 28 novembre 2005, qualche problema a trovare la vena, il tempo d’attesa per gli esiti degli esami del sangue, la visita, l’attesa di essere chiamata per la terapia e per finire mi sono accomodata sulla poltrona nello stanzino di quello che in Istituto chiamano ottagono e il liquido delle flebo ha cominciato ad entrarmi dentro.
La sensazione era particolare, quel liquido entrava ed era come se lo sentissi percorrere il mio corpo, mi sentivo strana, non sentivo dolore, ma mi infastidiva tutto, ero nervosa, non vedevo l’ora che tutto finisse e volevo sapere cosa avrei provato dopo, come mi sarei sentita.
Anche l’ultima sacca era finita potevo andarmene finalmente, fissati i successivi appuntamenti io e mio marito ci siamo incamminati verso l’uscita.
Lui mi guardava per capire, per intuire se ci fosse qualche cosa, ma stranamente non succedeva niente, non avevo nausea, non mi sentivo male, eppure tutto questo doveva succedere, ma niente.
Siamo arrivati a casa, mi aspettavano mia madre e i miei figli, anche loro mi guardavano , mi scrutavano, ma io continuavo a dire che andava tutto bene che mi sentivo bene ed era la verità, non avevo problemi, erano ormai passate diverse ore e non succedeva nulla, ho cominciato a pensare che forse ero così fortunata che la chemioterapia non mi avrebbe lasciato nessun effetto collaterale!
Mi sbagliavo, mi sbagliavo veramente.
Ad un certo punto tutto è stato chiaro, tutto si è rivelato come in realtà sarebbe stato, ho fatto finta di nulla, ho detto che ero stanca e che sarei andata a dormire,  ripetevo che stavo bene, anche se non era così, ma in questo modo tutti erano più rilassati.
Solo mio marito, come sempre, sapeva la verità e la verità era che mi sentivo malissimo, sapevo che quello stato sarebbe durato circa  tre giorni e che poi  gradatamente sarebbe andata meglio, ma c’erano le pastiglie di Endoxan che avrebbero continuato a dare fastidi per i 15 giorni durante i quali avrei dovuto assumerle.
Non voglio spiegare come ci si sente, non è necessario perché, chi l’ha provato lo sa benissimo, chi invece non lo ha provato non lo può nemmeno immaginare, però, voglio far capire che se anche il fisico sembra rifiutare queste sostanze con tutte le forze e mentalmente è difficile controllarsi, è possibile affrontare tutto e soprattutto bisogna avere la consapevolezza che c’è un inizio della terapia, ma anche una fine e con autocontrollo e  forza di volontà si può sopportare , io credo di aver avuto la fortuna di avere tutto questo.
La terapia è durata circa sei mesi e si ripeteva ogni ventotto giorni.
Nei primi quindici giorni le mie sensazioni erano quelle descritte sopra, è una cosa che logora la mente e soprattutto all’inizio c’è la grossa difficoltà legata al tempo, al tempo che manca alla fine, una fine che sembra sempre più lontana.
In ospedale durante i lunghi inevitabili tempi d’attesa, tra esami del sangue, visita e terapia, ho spesso osservato le persone che mi stavano intorno.
C’era una signora che pregava sempre, un’altra che leggeva e non toglieva mai lo sguardo dalla pagina, un signore che cercava in tutti i modi di parlare con gli altri, una ragazza con bellissimi capelli lunghi (purtroppo finti come i miei) che entrava nella sala con un sorriso solare, per un momento tutti guardavano ammirati la sua bellezza.
C’era un ragazzo che guardava e riguardava continuamente tutti i documenti relativi alla sua malattia, c’era una signora che con matematica precisione, ogni dieci minuti, prendeva dalla borsa bottiglia e bicchiere per bere.
C’era una signora che chiacchierava  con la figlia e i suoi occhi rivelavano tutto l’amore e il dolore che una madre prova di fronte ad un figlio che soffre.
Tutti parlavano tra loro, poi i discorsi s’incrociavano e tutti parlavano con tutti, quasi sempre della propria malattia, sembrava un modo per esorcizzare la paura, per condividere le difficoltà e darsi forza a vicenda. Non vedevo volti tristi, sicuramente sofferenti, ma in tutti quegli occhi così fieri e colmi di dignità si leggeva la speranza, la speranza di vincere, la speranza di vivere, la speranza che gli altri capissero che c’era ancora molto da fare nella vita.
Quando entravo in quella sala mi prendeva un nodo alla gola perché sapevo a cosa andavo incontro, ma poi la signora che pregava, quella che leggeva e tutti gli altri mi sorridevano e così serenamente, mi sedevo e chiacchierando aspettavo il mio turno.
E’ un’esperienza dolorosa, ma c’è  una cosa importante che si può fare ed è parlare, parlarne, non con chiunque, ma con le persone che sono disposte ad ascoltare e parlare anche d’altro, del sole che splende o della pioggia che scende, ma parlare non isolarsi, mantenere costantemente contatti con gli altri.
Questa malattia ha dato alla mia vita tante cose positive, so che può sembrare assurdo, ma è così e per prima cosa mi ha fatto scoprire che sono tante le persone che mi vogliono veramente bene.
Ci sono persone che con discrezione mi sono sempre state vicine e quando non le sentivo o vedevo fisicamente, sapevo comunque, avevo la certezza, che potevo contare su di loro.
I veri amici mi sono rimasti accanto sempre, mi hanno aiutata tanto con le loro parole con i loro sms quando sapevano che avevo difficoltà a parlare.
Non smetterò mai di dire che non bisogna autoemarginarsi che bisogna trovare il modo per mantenere i rapporti con gli altri, non  fa passare la nausea , ma sicuramente aiuta ad andare avanti e aiuta a credere che si può lottare, aiuta a non mollare,  aiuta a sentirsi amata che è la cosa più importante.
I miei capelli
Tra il primo e il secondo ciclo di chemio avrei sicuramente perso i capelli, questa era per me una cosa terribile.
In ospedale mi avevano avvertita che un giorno mi sarei ritrovata con i capelli che cadevano a ciocche e che sarebbe stato meglio a quel punto tagliarli tutti, per evitare di vedermi con pochissimi capelli in testa, con l’impossibilità di pettinarli e di avere quindi di me una visione veramente deprimente.
Presi accordi con la mia parrucchiera e in qualsiasi momento fosse avvenuto, anche di domenica, io avrei dovuto chiamarla e lei avrebbe pensato a tutto.
Questa cosa però mi angosciava e mio marito che riesce sempre a capire ciò che mi passa per la testa, mi disse che forse era meglio se a tagliarmi i capelli fosse stato lui, che non gli pesava e, tanto per sdrammatizzare, che comunque, se anche  il taglio non fosse venuto bene e alla moda, non era determinante.
Tutto bene, ma rimaneva un problema, io non avevo nessuna intenzione di vedermi senza capelli, non avevo la minima curiosità di guardarmi allo specchio “pelata”.
Una soluzione c’era ed era trovare il modo di non vedere la mia immagine riflessa allo specchio, quando non avevo nulla in testa.
Cominciai a studiare posizioni strategiche dove lasciare la parrucca o cappellini vari, posizioni dalle quali non sarei mai riuscita neppure per sbaglio a incrociare uno specchio.
Quel giorno arrivò, la sera prima ero uscita a cena con mio marito per festeggiare il mio onomastico, Santa Lucia l’abbiamo sempre festeggiato, la mattina seguente mi sono svegliata e sul cuscino c’erano tanti capelli, quindi ho deciso di non pettinarmi e di raccoglierli con un mollettone in modo da non perderne altri e aspettare il momento più opportuno per agire.
Il momento arrivò verso le 22, Giorgia dopo la lezione di danza era stanchissima ed era andata a dormire, Paolo era agli allenamenti di basket e non sarebbe tornato prima delle 23, quindi io e Lorenzo andammo in bagno, mi misi di spalle allo specchio e lui cominciò “il lavoro”, prima con le forbici e poi con il rasoio, io mi tenevo il viso e pregavo mio marito di non guardarmi, lui sorrideva perché non poteva certo rischiare di tagliarmi, ma non volevo che mi vedesse così.
Quando mi disse che aveva finito  presi il berretto che avevo già tra le mani e  lo misi in testa, da quel momento più nessuno mi avrebbe vista senza capelli.
La mattina mi mettevo nella posizione che avevo attentamente cercato, toglievo il berretto mettevo la parrucca e solo quando sentivo che era ben infilata mi avvicinavo allo specchio per sistemarmi.
Quando facevo la doccia uscivo con l’accappatoio e il cappuccio sollevato.
Non mi sono mai vista senza capelli, esattamente come mi ero ripromessa, questo è stato per me un punto di forza, un dolore in meno, un dolore che non ho provato.
Mi vedevo già abbastanza malata così, non avevo bisogno d’altro.
Non ho vissuto tutto ciò come una sconfitta, ma con la consapevolezza, di chi sa cosa può ferirla e cerca il modo per farsi meno male.
Durante l’estate non è stato facile perché la parrucca mi faceva sudare ed era impossibile, al mare, tenerla in testa, non mi sono persa d’animo, ho acquistato tanti berrettini colorati e li cambiavo in funzione del vestito che portavo.
Ad un certo punto a causa dell’uso così prolungato, ho cominciato anche a perdere i capelli della parrucca, tutto questo, sembrerà strano, ma mi faceva ridere, in questi frangenti l’autoironia è la medicina migliore.
Ho tolto parrucca e berretti solo ad ottobre dopo quattro mesi dalla fine della chemioterapia, dopo essermi fatta vedere da mio marito (sempre lui ha dovuto affrontare con me i problemi) quando, con l’aiuto di un po’ di gel sono riuscita a farmi una pettinatura che non mi facesse sentire ne ridicola ne malata.
Ero proprio soddisfatta, non avevo i miei lunghissimi (e bellissimi! Me lo dico da sola) capelli biondi, ma almeno qualche cosa di “finto” me lo ero tolto dalla “testa”.
La nuova pettinatura piaceva a tutti, un po’ meno a me che non mi sono mai vista con i capelli corti (credo di essere nata con i capelli lunghi!!), ma devo ammettere che un vantaggio lo vedevo anch’io: sembravo più giovane!
Mentre sto scrivendo i capelli sono cresciuti un po’ di più, sono tornati del colore originale e mi sembra di assomigliare un po’ più a me stessa.
Come si può vivere e non sopravvivere durante le terapie
Non ci sono segreti,  magie,  bacchette magiche o elisir di lunga vita che possano aiutarci, l’aiuto però, è importante saperlo, lo possiamo trovare dentro noi stessi, tutti abbiamo una forza interiore che ci viene in soccorso nei momenti difficili, dobbiamo solo andare a cercarla nei meandri della nostra mente e il gioco è fatto.
Sembra troppo facile?
No, non è facile, ma sicuramente è possibile.
Tutti noi abbiamo qualcuno o qualche cosa che amiamo con tutto il nostro essere, aggrapparsi a quello è già un passo importante, ma bisogna fare di più, bisogna “volersi bene”, aver voglia di vivere prima di tutto per se, sono sempre stata convinta che per star bene con gli altri, per prima cosa bisogna star bene con se stessi, sarebbe stato assurdo voler vivere per qualcuno se per prima cosa non lo volevo per me.
Chi mi sta intorno, mi ama, mi apprezza, ha voglia di starmi vicino principalmente per come sono, perché riesco a dare serenità, perché alle persone che amo do tutta me stessa, senza risparmiarmi, ma tutto questo è possibile solo perché mi voglio bene e voglio circondarmi di bene.
In questo periodo, ho avuto tanto tempo per pensare e riflettere e ho capito quanto sia importante essere capaci di stare ogni tanto soli con i propri pensieri.
Solo se si è capaci di stare soli si è anche capaci di vivere le relazioni con gli altri in modo equilibrato.
I miei pensieri mi hanno fatto compagnia e mi hanno aiutata a superare i momenti difficili, quando la tristezza prendeva il sopravvento, quando i dolori sembravano insopportabili, la mia mente mi diceva “ascolta il tuo corpo” e perché avrei dovuto ascoltarlo?
Perché attraverso il dolore il mio corpo diceva che era vivo e stava cercando in tutti i modi di reagire.
La mia testa mi diceva che dovevo lottare perché ho ancora tante cose da fare, da imparare, da dare.
La forza mentale mi aiutava a sopportare il dolore, la forza del cuore mi ha sempre aiutata a non far soffrire gli altri, la serenità sul volto dei miei figli era uno stimolo a fare sempre di più, la serenità del mio volto aiutava gli altri ad avere speranza.
La speranza è un’altra cosa alla quale si deve dare fiducia.
Può sembrare assurdo avere fiducia nella speranza, la speranza non sembra essere qualche cosa in cui avere fiducia e invece sì, la mia speranza è sempre stata quella di trovare medici competenti, di fare delle cure che potessero aiutarmi a stare bene e io ho sempre avuto la massima fiducia nella mia speranza, mai ho avuto dubbi sul fatto che i medici che ho incontrato abbiano fatto tutto il possibile per me, non ho mai avuto dubbi sul fatto che le terapie servissero (e questo mi ha aiutata a sopportare tanto) non sto dicendo che avevo la speranza di guarire miracolosamente, questo può non succedere, ma avevo la certezza che tutto ciò che stavo facendo era la cosa giusta.
Credere, crederci con tutta l’intensità possibile è veramente importante.
Importante è anche la preghiera, ma non per se stessi, pregare fa tanto bene, ma fa bene quando si prega per gli altri.
Io ero già malata non potevo pensare che il buon Dio, con tutto quello che ha da fare, facesse un miracolo facendo sparire il mio cancro, ma potevo pregare per gli altri, per tutti quelli che ne hanno bisogno, per le persone a me care, per tutti.
Ho pregato e ho parlato tanto con mio padre.
Papà non c’è più fisicamente da sedici anni,  mi ha lasciata, perché un cancro ai polmoni se l’è portato via, ma è sempre stato con me, sia nei momenti felici che in quelli difficili.
Parlare con lui mi fa bene, mi aiuta a prendere decisioni.
Con lui avevo un rapporto speciale fatto di tanto amore, di comprensioni quasi immediate, non avevamo bisogno di parole, ci bastava uno sguardo per capire.
Quello sguardo non lo posso più vedere con gli occhi, ma con il cuore sì, e il suo sguardo è sempre stato rassicurante, il suo sorriso, pulito e solare è sempre stato vivo nel mio cuore.
Quando avevo paura, mi rivolgevo a lui, gli parlavo ed ero certa che lui mi ascoltava, sentivo il calore del suo amore e la sua protezione, questo mi ha aiutata molto.
Bisogna anche fare progetti, a breve scadenza, con risultati visibili in poco tempo , perché i progetti a lunga durata rischiano di creare ansie inutili, ma è stato per me importante, anzi direi fondamentale, sapere che è possibile pensare a domani e creare le condizioni perché di quel domani sia stata in qualche modo io stessa l’artefice.
Quando è possibile è importante tornare a lavorare e se non si può, tenere comunque la testa occupata.
In tutto il periodo della chemioterapia io non ho lavorato, faccio l’insegnante di musica, mi piace il mio lavoro, ma il rapporto con i ragazzi perché sia proficuo, presuppone una condizione fisica almeno accettabile che io non avevo, oltre che per le terapie anche a causa della ferita che non ne voleva sapere di chiudersi, ma per tutto il tempo ho pensato a cosa avrei potuto fare quando sarei tornata.
Qualche volta sono andata a scuola, ma ho sempre parlato solo con il mio caro amico, il Rettore, Don Romano che più di una volta mi ha chiesto se volevo salutare i ragazzi, ma non ce l’ho mai fatta, solo l’idea mi faceva venire un nodo alla gola, che mi avrebbe impedito di salutarli serenamente come avrei voluto, ma ho sempre pensato a loro.
E’ importante fare tutto quello che si può, ma è anche importante prendersi cura di se stesse.
Certe mattine l’idea di dovermi alzare dal letto, mi metteva in crisi, sarebbe stato molto più semplice rimanere a letto, non fare nulla, invece no, non ci si deve lasciare andare, è importante camminare sempre a testa alta, io sono più forte di ogni cosa, io posso combattere contro qualsiasi cosa e allora mi alzavo dal letto, dopo essermi lavata pensavo a come vestirmi, mi truccavo per togliere dal viso quel colore tipico di chi “non si sente molto bene” e quando arrivavano i miei figli e mio marito facevo tutto il possibile per apparire serena.
Tra i vari problemi che ho avuto c’è stato anche un notevole aumento di peso, circa cinque chili ad ogni ciclo di chemioterapia, sono arrivata a pesare ben novantotto chili!
Nell’armadio c’erano abiti che partivano dalla taglia 44, arrivavano alla 52 per poi passare alle taglie “conformate” vale a dire le “grandi taglie”, tutto questo cambiamento è avvenuto in un arco di tempo troppo breve perché io potessi abituarmi a quella immagine.
Mi guardavo allo specchio e  non mi riconoscevo.
Era terribile, non trovavo vestiti che mi piacessero, ma dovevo in qualche modo vestirmi e quindi cercavo tra le cose che mi sembravano il meno peggio possibile.
In questo ha avuto un ruolo importante mia madre, perché mi ha sempre spronata e rassicurata sul mio aspetto che, anche se non era certo quello di prima, non era neppure inguardabile e con la generosità che la contraddistingue, arrivava sempre a casa mia con capi d’abbigliamento nuovi.
Non appena ho finito la chemioterapia, mi sono rivolta, sempre in Istituto ad un medico che ha messo a punto per me una dieta e alla fine dell’estate avevo perso ben 28 chili, senza fare grosse fatiche, ma soprattutto sentendomi bene e in forma.
Non è stato difficile seguire la dieta perché le motivazioni erano forti, perché forte era il desiderio di lasciarmi tutto alle spalle, anche quell’orribile aspetto.
Ora sono tornata alla normalità oltre al peso sono ricresciuti i capelli, ho un look diverso, ma non mi sento e non mi vedo più malata.
Il cammino è stato difficile e tortuoso però l’ho percorso sempre con orgoglio, con dignità, chiedendo aiuto, quando necessario, perché chi ti vuole bene aspetta solo il momento opportuno per darti una mano e così, in un colpo solo facevo del bene a me stessa e a chi mi stava aiutando.
Il mio dottore preferito
Siccome sono una persona molto fortunata, anche nella malattia non potevo farmi mancare nulla.
Tra le varie cose che mi sono capitate, la più complessa è stata la ferita che ha cominciato ad aprirsi dopo la prima chemioterapia, a causa della necrosi determinata dalla radioterapia.
Se chi sta leggendo ha avuto come me il problema di incontrare il cancro sul suo cammino, non si preoccupi perché ciò che è successo alla mia ferita  praticamente non succede quasi mai.
Dicevo che a gennaio la mia ferita era per metà aperta, è a quel punto che entra in scena il mio angelo, quello che ora io chiamo il “mio dottore preferito” il dott. Stefano Martella.
Quel giorno ero piuttosto tesa, da tre mesi mi recavo regolarmente circa due volte la settimana in Istituto per le medicazioni, quando, la Dottoressa Gatti, mi disse che sarei stata visitata da un chirurgo plastico per vedere cosa si poteva fare.
Durante il primo incontro ebbi subito l’impressione di avere davanti a me una persona molto competente, aveva un’aria seria, ma nello stesso tempo rassicurante, mi visitò e mi disse che avrebbe fatto il possibile per chiudere la ferita, si dimostrò molto cortese, ma molto professionale e in quel momento non potevo certo immaginare che saremmo diventati amici.
Alla visita successiva, ricordo i suoi occhi più sorridenti, come se, capito il problema, volesse in qualche modo tranquillizzarmi, tra noi c’era un minimo di conoscenza in più e quindi forse poteva avere un atteggiamento più rilassato, ricordo ancora quando sorridendo mi disse che non era un medico “pietoso”, ma io non avevo  certo bisogno di pietà!
Non posso raccontare tutto ciò che è successo alla mia ferita, non riesco neppure a contare quante volte sono stata medicata, ci vorrebbe un libro solo per quello, ma posso sicuramente raccontare il modo in cui il dott. Martella si è occupato di me dal punto di vista medico e psicologico.
E’ diventato veramente il mio angelo, a lui ho sempre potuto raccontare le mie tensioni e le mie ansie, mi ha sempre ascoltata ed è sempre stato capace di comunicarmi la sua comprensione e il suo appoggio, a volte il tempo era poco, perché è sempre molto impegnato, ma un minuto per me l’ha sempre trovato.
Le complicazioni sono state tante, basta pensare che la ferita si è chiusa  definitivamente solo a fine settembre, eppure lui in quei nove mesi è sempre stato capace di darmi la forza necessaria per affrontare i problemi.
Io non mi sono scoraggiata, ma lui mi ha dato gli stimoli giusti per non demordere.
Non è stato facile, eppure, sapere che lui si stava occupando di me mi dava la certezza che saremmo arrivati alla soluzione del problema.
Il dott. Martella è una persona davvero speciale, è sempre disponibile, ma soprattutto ha una innata capacità di capire le persone e di conseguenza si comporta con ogni paziente in modo diverso e la diversità non sta per “diverso trattamento”, ma per trattamento personalizzato.
Io sono Lucia Rusconi con il suo modo d’essere, la sua storia, la sua vita, la sua personalità e quindi il suo atteggiamento nei miei confronti teneva e tiene conto di tutto ciò, non ha un modo standardizzato di trattare le pazienti, ma ha profondo rispetto dell’identità di ognuna.
Credo proprio che non avrei potuto nemmeno sperare di avere la possibilità di incontrare un medico che si sarebbe occupato di me con tanta dedizione, accompagnata da una professionalità e competenza di così alto livello.
Io non sono stata purtroppo una paziente facile, perché c’era sempre qualche cosa che non andava per il verso giusto e soprattutto perché i tempi sono stati decisamente lunghi, ma tutto ciò ha portato nella mia vita una cosa positiva, cioè l’amicizia con Stefano Martella.
Un’amicizia alla quale tengo molto perché basata sulla stima reciproca e perché Stefano è proprio una “bella persona”.
Io gli devo veramente tanto, i suoi messaggi sono sempre arrivati al momento giusto, quando mi sentivo un po’ giù, il cellulare squillava, arrivava un suo sms e questo bastava a farmi stare meglio, perché era come sentirsi costantemente sotto controllo, curata in ogni momento.
E’ lui che è riuscito, con calma, a spiegarmi, dopo tanto tempo, tutto quello che dovevo sapere sul mio tumore e con lui non ho avuto paura di ascoltare e capire.
Quando la ferita finalmente si è chiusa, c’è stato un momento di smarrimento, non dovevo più andare in ospedale, non dovevo più vedere il mio angelo.
Mi sentivo come disorientata, una sorta di  “crisi di astinenza”, all’improvviso tutto si era risolto, ma io non potevo d’un tratto, non sentire più il mio dottore preferito, e infatti continuo a sentirlo, certo non con la frequenza di prima, ci sono altre pazienti di cui si deve occupare, ci sono altre persone che in questo momento hanno la necessità di essere curate, sicuramente più di me, e c’è anche una sua vita privata alla quale ha diritto, ma quando ne ho bisogno, lui c’è, so che in qualsiasi momento potrò contare su di lui.
Spesso mi capita di fare domande al Dott. Martella in quanto medico, perché so che a rispondere è il mio caro amico Stefano del quale mi fido ciecamente e perché lui sa come parlarmi e darmi ogni comunicazione nel modo più corretto e funzionale.
Ogni paziente dovrebbe avere uno Stefano Martella a cui affidarsi, ed essere presa per mano in questo difficile cammino da una persona di cui fidarsi veramente.
Grazie Dottore di essere come sei.
Le mie giornate e i miei pensieri oggi
È passato più di un anno da quel 9 settembre, ma sembra essere passata una vita.
Oggi il sole splende e il mio cielo è di un azzurro intenso.
Di quei giorni ho solo il lontano ricordo dei miei stati d’animo, delle mie ansie, delle mie paure e dei tanti perché.
Ma tutto ciò, anche se non lo posso cancellare, fa parte del passato, è racchiuso in un angolo della mia mente, in un compartimento stagno, come se, inconsciamente, avessi fatto di tutto per far si che questo evento non raggiungesse e distruggesse la mia anima.
La vita mi ha dato un’altra possibilità e ora “io sorrido” alla vita come mai avevo fatto prima.
E’ stato un anno che non auguro a nessuno, ma io sono stata fortunata perché a me è rimasto solo tutto ciò che di positivo può lasciare un’esperienza così dolorosa.
Mi ripeto e mi ripeterò sempre che la vita mi ha dato una seconda possibilità, sprecarla sarebbe troppo stupido.
Tutto il mio corpo è teso ad assaporare ogni momento, a godere di ogni istante, non posso perdermi nulla e allora ecco che i miei occhi non guardano solo, ma è come se fotografassero ogni immagine e la mia mente registrasse ogni singolo fotogramma in modo da lasciarne una traccia indelebile nel mio cuore.
Le mie mani accarezzano e abbracciano le persone che amo trattenendo le serene, delicate e nello stesso tempo forti sensazioni che provo.
Le mie orecchie sono pronte ad ascoltare con attenzione ogni cosa e ogni persona per immagazzinare i singoli suoni e poterli quindi riascoltare tutte le volte che il mio cuore ne avrà bisogno.
Vivo ogni istante con uguale intensità.
Tutto mi ricorda che sono viva e anche se non so, anzi proprio perché non so per quanto, tutto diventa fondamentale e assume un valore immenso.
Mi sento “viva” dentro, ho ancora tante cose da fare e da imparare, ho ancora talmente tante cose da vedere che sarebbe assurdo perdere tempo a piangermi addosso.
Adesso comincio a sentirmi bene non so quanto durerà questo stato di grazia, ma un’altra cosa che ho imparato è che devo affrontare una cosa alla volta, inutile affollare la mente di problemi (o falsi problemi) è proprio questo che porta al panico perché non si sa da che parte iniziare e si finisce nel caos.
Ho imparato a dare la priorità a ciò che conta davvero e così ogni mattina è una mattina in più, questo è il primo pensiero, un giorno in più con la mia vita e con tutto ciò che in questi 50 anni ho costruito di buono, ringrazio il Signore e affronto la giornata con serenità sapendo che i miei occhi sono in grado di vedere gli ostacoli che inevitabilmente incontrerò sul mio cammino, ma con la consapevolezza che posso sopportare le avversità con la forza di un adulto.
Sono stata fortunata ad avere accanto a me persone straordinarie che hanno saputo attutire i colpi e adesso, le ammaccature non sono troppe, sto in piedi senza sostegni, con le mie gambe, ma so, ne ho la certezza, che in qualsiasi momento posso trovare braccia forti che mi possono sorreggere e occhi nei quali perdermi quando la realtà è dura da guardare, perché guardare avanti insieme è più facile.
Sono stata fortunata a trovare medici competenti che mi hanno curata, ma sono stata ancora più fortunata ad avere fiducia in loro, mai ho avuto il minimo dubbio e questo mi ha dato tanta forza.
Rileggendo queste righe mi rendo conto che ho parlato sempre di fortuna, come se il cancro (termine che detesto perché ha un suono orribile) avesse portato nella mia vita solo cose positive, non è così, la sofferenza c’è stata, l’angoscia c’è stata, la paura è stata tanta, ma è importante sapere che dentro di noi è possibile trovare la forza e la volontà necessarie per lottare che non ci si deve chiudere in se stessi lasciando che la vita trascorra, non dentro di noi, ma accanto a noi come se fosse qualche cosa che non ci appartiene, che è possibile vivere e non solo sopravvivere anche con questa malattia.
So già che ogni controllo sarà motivo d’ansia, che non è tutto finito e, anche se ci sarà in me sempre la speranza di sentirmi dire nei prossimi anni che tutto va bene, so che potrebbe non essere così, ma ora so anche, che ritirerò fuori le unghie e ricomincerò a lottare, certamente con fatica e con dolore, ma so che lo farò, con una differenza,- ora so!-
Prima davanti a me c’era il buio e ciò che non conosco mi fa paura, ma ora so!
So che sono più forte.
Affronto una cosa alla volta, giorno per giorno senza mai aggirare gli ostacoli.
Non faccio progetti a lunga scadenza perché ogni giorno diventa un progetto.
Non mi faccio prendere da facili quanto stupide rabbie, ma cerco di vedere il bicchiere sempre mezzo pieno.
Non ho paura e non mi vergogno di esprimere i miei sentimenti senza però incatenare a me nessuno.
Se ne ho bisogno, non ho paura di piangere, perché so che dopo, asciugate le lacrime, sfogate le tensioni, il cielo tornerà ad essere azzurro e il sole riprenderà a riscaldare il mio cuore.
“E’ passato più di un anno” e non mi sembra vero ed è passato anche grazie a tutte le persone che mi sono state vicine.
In questi giorni ogni tanto gli occhi mi si riempiono di lacrime quando penso a come tutto era così complicato e quando i miei pensieri correvano sempre nella stessa direzione e avevo tanta paura.
Ora ho un grande desiderio ed è quello di riuscire a dare a tutte le persone che mi sono care un momento di serenità e mi piacerebbe poter dare il mio appoggio, la mia comprensione e un po’ della mia pace a chi ne ha bisogno, a chi soffre, nel fisico e nell’anima, per se e per gli altri, non so ancora come farò, ma so che un modo lo troverò e ho la certezza che aiutando gli altri farò del bene anche a me stessa.
Credo di avere una grande forza mentale, è la stessa forza che mi permette di vedere la mia vita come la più emozionante e ricca che possa esistere.
Forse sono capace di comunicare questa forza a chi ne ha bisogno,
C’è una scoperta che ho fatto ultimamente che in un primo momento mi ha spaventata, ma che invece è importante che io abbia fatto ed è che non sono sempre così forte come pensavo, che anch’io posso avere dei momenti di debolezza, questo mi ha avvicinata a chi è meno fortunato di me, ho scoperto che questi momenti sono molto dolorosi, quando assale l’ansia manca il fiato, la terra traballa e ci si sente instabili.
E’ una sensazione orribile che non mi era mai capitata e che soprattutto non riuscivo neppure a concepire.
Invece mi è successo, è successo proprio a me che affronto i problemi con decisione e non mi nascondo mai, è successo e non sapevo cosa fare.
Quando non so come comportarmi generalmente mi fermo, rifletto,valuto le diverse possibilità e poi agisco, ma questo succedeva prima, ora tutto è più complicato e la cosa più difficile è sgombrare la mente da ogni pensiero negativo, non mi basta fermarmi e riflettere, lo sforzo di volontà deve essere di gran lunga superiore perché è come se tutto quello che ho costruito fin ora crollasse sotto il peso di questo macigno di nome cancro che si insinua come una fitta ragnatela in ogni angolo della mia mente, ma non è così, nulla può essere più forte della nostra volontà.
Cosa ho fatto per superare gli inevitabili momenti difficili?
 Esattamente non lo so, di sicuro ho fatto lavorare parecchio la mia mente e il mio corpo, facendo tutto ciò che mi piace fare e cercando gratificazione e soddisfazione in quello che stavo facendo, ma soprattutto ho cercato gli “altri”.
Gli “altri” sono: Paola, Simona, Manuela…… le persone che mi conoscono, che mi vogliono bene, sono tutte le persone che incontro e con le quali scambio anche solo quattro chiacchiere.
Gli “altri” sono: Sonia, Marta, Donatella, Romano, Carlo………e sono straordinari perché a volte non sanno, non si rendono conto di quanto bene ti stanno facendo, magari solo attraverso un sorriso o una parola rivolta in modo amorevole.
Io cerco spesso gli altri e quando non posso vederli telefono o scrivo o mando SMS, (di solito chilometrici) non chiedo aiuto, cerco un contatto e gli altri non sanno che stanno facendo tanto per me.
Spesso scrivo, mi piace scrivere, mi aiuta a dire, mi aiuta a buttare fuori ciò che non voglio e non devo tenere dentro.
Mi aiuta a trovare i “perché”, mi aiuta a capirmi perché rileggendo ciò che scrivo, scopro cose che forse la mano ha scritto solo perché guidata dal cuore e non dalla ragione, mi aiuta a non perdermi, a tenere uno stretto contatto con me stessa e non importa a chi scrivo o che qualcuno legga ciò che scrivo, ciò che importa è che le parole si fissino sulla carta in una sorta di immobilità che però è anche continuo movimento perché le parole muovono i sentimenti, le emozioni, le immaginazioni, le menti.
I pensieri si affollano sembrano confondersi e confondermi, ma non è così: scrivo che voglio aiutare gli altri poi confesso che anch’io ho paura, che anch’io ho momenti di disperazione, ma sono una persona normale e, che tu che stai leggendo ci creda o no, tutto questo mi da un gran sollievo perchè quando in modo più o meno consapevole “fingevo” che tutto andava bene, davo un’idea di me sbagliata, non voglio essere wonder woman, voglio solo essere Lucia che sprizza voglia di vivere da tutti i pori e che quindi come è normale che sia, vuole aspettare ancora un po’ prima di mettere la parola fine, perché la mia vita mi piace moltissimo.
Spero tanto di riuscire ad essere uno degli “altri” che nominavo prima per tutte le persone che incontro.
Tutto ha un senso, tutto succede per un motivo preciso.
Io non so ancora perché, ma anche la mia malattia deve avere un senso nella mia vita.
Sicuramente è cambiato il mio atteggiamento nei confronti della vita, forse non ho mai avuto un particolare atteggiamento, forse vivevo e basta!
Forse non ho mai pensato abbastanza seriamente a quanto sia bello vivere.
Ora che ho una malattia con un nome terribile, che rievoca subito la morte, mi rendo conto della fortuna che ho avuto in questi 50 anni.
Mi rendo conto di averli vissuti tutti intensamente, credo di non aver buttato via nemmeno un secondo.
Terrei tutto di questi 50 anni errori compresi, perché tutto ha contribuito a farmi crescere, a essere quella che sono oggi.
Riesco a dare maggiore valore alla grande ricchezza che posseggo e che non è fatta di cose, ma dall’immenso amore che mi circonda.
Mio marito è semplicemente adorabile e mi ama davvero tanto, lo sapevo anche prima, ma adesso riesco a percepirlo in modo più profondo.
Ho due figli meravigliosi, che mi vogliono bene e mi hanno coccolata in modo straordinario.
Una madre che si è presa cura di me rendendosi disponibile sempre e comunque, nonostante l’evidente sofferenza di essere “la mamma”.
Tanti amici cari che mi hanno sostenuta e amata.
Tutto ha senso, tutto succede per un motivo preciso, probabilmente c’è molto di più di quanto ho scritto, ma per il momento mi basta questo.
Lucia R.

 

 

3 commenti

  1. Ciao Lucia, ben arrivata nel nostro Arcobaleno. Anche se tu non fai parte della classe degli “smidollati” la tua storia si avvicina molto al nostro percorso.
    Non aggiungo nulla, vi chiedo di leggerla, anche se è molto lunga, perchè Lucia ha saputo raccontare, dall’inizio alla fine quello che realmente vive un malato di cancro.
    Un abbraccio Lucia e grazie 🙂

  2. Ciao Lucia, benvenuta tra noi. Le tue sensazioni ed emozioni rispecchiano fedelmente quello che si prova e che si vive, quale che sia il nome che viene dato alla malattia. Speriamo ed auguriamoci che tu possa, con la serenità della tua testimonianza, contagiare anche chi non e riuscito a reagire nella maniera giusta, come sei riuscita tu. Forza, coraggio, e sempre avanti…. Un abbraccio da una sorella maggiore…….. Ciao. Daniela m.

  3. Salve a tutti,
    mi chiamo Marzia e scrivo da Palermo.
    Dopo Pasqua mia madre subirà un intervento di lipolling proprio dal Dott. Martella, ma non lo riusciao a rintracciarlo poichè è sempre in sala operatoria e non ha mai risposta alle nostre email.
    Mia madre è un pò preoccupata, perchè prima dell’intervento di chirugia plastica vorrebbe porgli qualche domanda, ma è sempre irreperibile.
    Qualcuno di voi ha il suo numero di cellulare personale o un’email che legge?

    Grazie mille e in bocca a lupo x tutto!

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