Mezzo secolo fa, quando fu scoperta, era vista come una condanna: la progressione della malattia molto rapida e la disponibilità esclusiva dei farmaci citostatici rendevano la sopravvivenza quasi mai superiore al quaranta per cento. Oggi la leucemia promielocitica acuta (poco meno di duecento diagnosi annue in Italia) ­può essere curata nella quasi totalità dei casi. La ricerca farmacologica ha fatto passi da gigante. Il merito è soprattutto degli ematologi italiani, protagonisti di uno studio apparso nel 2013 sul New England Journal of Medicine che ha «sminuito» il ruolo dei chemioterapici per evidenziare l’efficacia di un approccio basato sulla combinazione dell’acido retinoico (derivato della vitamina A) con il triossido di arsenico. Il loro effetto è complementare: il triossido di arsenico induce l’apoptosi (la morte cellulare programmata) delle cellule tumorali, che sarebbe però insufficiente senza l’apporto dell’acido retinoico: chiamato a completare il percorso di differenziazione cellulare dei promielociti, precursori dei neutrofili maturi (globuli bianchi). Tutelata, grazie al nuovo approccio, è anche la fertilità. Un aspetto non irrilevante, se si considera che l’incidenza della malattia è maggiore tra i 30 e i 45 anni.

Un anno dopo la diffusione dei dati, il nuovo trattamento – in grado di intervenire sul meccanismo molecolare che determina la malattia – è stato definito come «gold standard»: ovvero la via maestra da seguire in tutti i reparti di ematologia quando si ha di fronte un paziente colpito da una leucemia promielocitica acuta. Nei pazienti a basso e medio rischio ha sostituito la chemioterapia, ancora usata soltanto nei casi più delicati. Ma l’effetto garantito dalla combinazione dei due farmaci rimane legato ai tempi di intervento: più precoce è l’approccio, maggiori sono le chance di registrare l’esito positivo.

Qual è il campanello d’allarme che deve consigliare di recarsi subito in pronto soccorso? «La comparsa di emorragie cutanee, che fortunatamente più spesso sono però il segno di malattie benigne del sangue: a partire dalla porpora», afferma Felicetto Ferrara, direttore dell’unità operativa complessa di ematologia dell’ospedale Cardarelli di Napoli. I sanguinamenti possono avvenire anche dal naso («un’emorragia da entrambe le narici è un campanello d’allarme per la leucemia promielocitica acuta»), dalle gengive o riguardare l’apparato digerente, quello genito-urinario e il sistema nervoso centrale. Stanchezza e malessere generale sono quasi sempre presenti nei pazienti colpiti dalla malattia. Il suggerimento, in questi casi, è di rivolgersi sempre a una struttura dotato di un reparto di ematologia, dove una corretta diagnosi – grazie alla disponibilità di strumenti in grado di amplificare il Dna, senza dover attendere l’esito di una «Pcr» – può avvenire in meno di mezz’ora e senza troppi margini d’errore.

L’analisi molecolare è dirimente nella definizione della diagnosi, perché «i pazienti colpiti da una leucemia promielocitica acuta sono portatori di una traslocazione acquisita, non presente dunque dalla nascita, tra i cromosomi 15 e 17», precisa Francesco Lo Coco, responsabile del laboratorio integrato di diagnostica oncoematologica del policlinico Tor Vergata di Roma e prima firma della ricerca apparsa sul New England Journal of Medicine: una svolta per la cura di questa malattia, a conti fatti. Quale meccanismo sia alla base dell’alterazione, al momento non si sa. Ma ciò che conta è la possibilità di salvare questi sfortunati pazienti, che possono scoprire di avere una leucemia promielocitica acuta «il giorno dopo aver effettuato una partita di calcetto o essere andati in palestra», ricorda Giuseppe Rossi, direttore della struttura complessa di ematologia agli Spedali Civili di Brescia, per smascherare l’assoluta imprevedibilità del tumore. Basta intervenire correttamente nell’arco di poche ore per salvare loro la vita. La malattia, dopo una serie (minima) di quattro cicli di trattamenti con arsenico e acido retinoico, è destinata a rimanere un ricordo. «I tassi di recidiva sono inferiori al due per cento e riguardano comunque i pazienti più anziani», chiosa Ferrara. Saperlo vuol dire aver già compiuto un passo in avanti.

 |  Di Fabio Di Todaro

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Per approfondire www.fondazioneveronesi.it

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