Non è come crederesti

A volte mi sento nel posto sbagliato, in un mondo parallelo. Prima o poi mi sveglierò e questa fase onirica sarà svanita.

A volte penso di poterla mandare via con la sola forza di volontà, come quando ti costringi a svegliarti se stai facendo un incubo.

Altre volte è come essere intrappolata in un film di fantascienza, e una misteriosa creatura mi scorre lentamente nelle vene.

La maggior parte delle volte provo gratitudine.

Il mio terzo compleanno è stato il 28 luglio 2018: la data del mio trapianto di midollo, il giorno in cui mi è stata data una seconda possibilità di vivere.

L’inizio della fine

Sono sempre stata un’ottimista, anzi una sognatrice. Il pragmatismo ho dovuto impararlo.

Ero preoccupata, perché avevo i sintomi di un’influenza da più di un mese. Avevo difficoltà a salire una rampa di scale, rimanevo spesso senza fiato. Il cuore mi batteva forte, costantemente.

Avevo litigato con il mio medico perché non volevo sottopormi a una visita specialistica, ma dopo una settimana lei riuscì a convincermi. A volte, so essere molto testarda.

Aspettavo da 2 ore quando finalmente mi fecero entrare. Speravo che la mia permanenza nel reparto di ematologia fosse breve: volevo che mi dicessero cosa avevo, che qualcuno mi aiutasse a sistemarlo, e poi andarmene.

Quattro ore e un test del midollo osseo dopo, mi venne diagnosticata un’anomalia del sangue e fui ricoverata. Volevo andare a casa a lavarmi i capelli (non avevo avuto l’energia per farlo all’inizio della giornata, un segno abbastanza evidente), ma in ospedale non mi lasciarono andare via.

Passai l’intero weekend di Halloween passando dal reparto trapianti (pensavo a un trapianto di organi) a quello di ematologia. Un medico mi diede la notizia lunedì mattina: leucemia mieloide acuta.

Chiesi qual era la cura e quanto ci sarebbe voluto perché la mia vita tornasse alla normalità. La dottoressa inclinò la testa da un lato e mi guardò come se non avessi capito una parola di quanto mi aveva detto. Stavo per farle un’altra domanda, ma la voce mi si spezzò. Mi misi a piangere.

Dovetti ricevere 10 unità di sangue e 44 unità di piastrine durante il primo ciclo di chemioterapia e di ospedalizzazione. A un certo punto smisi di leggere e di contare le cartelle mediche.

Avrei dovuto avere un trapianto autologo, ovvero avrebbero dovuto usare le mie stesse cellule staminali per combattere la leucemia.

Ma ebbi una ricaduta dopo le prime due chemio: la mia leucemia era troppo aggressiva. I medici cambiarono protocollo di cura e mi prepararono per un trapianto allogenico.

Mi sottoposi ad altre due chemioterapie, più due trattamenti di chemioterapia intratecale. Nel frattempo, il mio profilo venne inserito nel registro donatori di midollo osseo ed ebbe inizio la ricerca.

Avevamo già escluso mio fratello, che aveva solo il 40% di compatibilità, troppo basso. In un mese trovammo due donatori, uno rispose e risultammo compatibili.

Se solo gli appuntamenti al buio fossero così semplici!

La rinascita

Per il trapianto rimasi in ospedale 45 giorni. Le cellule staminali avevano bisogno di trovare una tabula rasa: mi sottoposi quindi a dosi massicce di chemioterapia, più intense di quelle precedenti, in modo da cancellare completamente ogni traccia del mio midollo osseo.

Mi spostarono in una stanza che aveva tutta l’apparenza di un acquario, con una grande finestra e vicino ad essa un telefono, tramite il quale le persone potevano parlarmi. Non avevo alcuna protezione contro nessun tipo di batterio.

Durante la chemio, mi somministrarono un narcotico per quattro giorni, una specie di LSD, per proteggere le mie cellule cerebrali dalla terapia. Il primo giorno sotto l’effetto della droga fu davvero incredibile.

I successivi tre giorni trascorsero in uno stato di torpore. Parlare era diventato difficile, era come se qualcuno mi avesse messo un asciugamano bagnato tra il cervello e il cranio.

Durante le ore di visita, quando avevo difficoltà a parlare, chiedevo a mia madre di prendere in mano la situazione. Era l’unica persona che potesse entrare nella mia stanza, due volte al giorno, per un’ora. In questi casi, le faceva del suo meglio e io mi concentravo a fare domande aperte, in modo che la conversazione potesse proseguire senza che dovessi partecipare molto.

Mio padre mi raccontava barzellette al telefono dell’acquario, con l’obiettivo di farmi sorridere almeno una volta.

Avevo 46 anni e 10 mesi quando mi venne trasfusa una sacca di cellule staminali che aveva l’aspetto di una salsa di pomodoro molto liquida. Diedi un soprannome al mio donatore, lo chiamai Hans.

Sapevo che era un trentunenne tedesco. Per questioni di privacy, le nostre identità sono mantenute segrete, le uniche cose che sappiamo l’uno dell’altra sono il Paese di residenza, l’età e il sesso.

Durante il ricovero cantavo canzoni per Hans. Usavo il ritornello di “Johnny be good”, ma con Hans al posto di Johnny. Volevo che le cellule di Hans attecchissero, che fossero quelle giuste, che fossero lì per restare.

Smisero di somministrarmi cibo per circa tre settimane, perché avevo la mucosite: il mio corpo non aveva gli agenti necessari per combattere le infezioni, figurarsi quelli per digerire il cibo. Per ovviare, venni nutrita e idratata per via endovenosa.

Avevo la bocca così infiammata che non potevo lavarmi i denti. Ma non importava, visto che mangiavo niente. Mio padre era preoccupato, perché le sue barzellette non mi facevano ridere. La verità è che sorridere mi faceva male.

Anche ingoiare divenne un problema, così chiesi di ricevere in forma liquida le medicine che avrei dovuto prendere oralmente. Il mio albero (il soprannome per l’asta per la flebo) era operativo 24 su 24. Riuscii persino a ribaltarlo, trascinandolo con me una volta che tornavo dal bagno al letto.

Per fortuna, i tubi delle flebo erano abbastanza lunghi da non strapparsi, quando l’asta e le sacche con le medicine caddero a terra.

Suonai per chiedere aiuto e l’infermiere, bianco come un lenzuolo, mi disse che ero stata fortunata che l’asta non mi fosse caduta addosso.

Fuori dal grembo

Mi fecero uscire dall’ospedale quando era chiaro che Hans stava facendo il suo dovere. Mio fratello scherzava via Skype, mi diceva che il mio donatore era un vero tedesco, lavoratore e serio.

Il primario mi cacciò via prima del tempo, perché avevano bisogno del letto, ma uno degli altri medici si rifiutò, dicendo che i miei progressi erano, al massimo, scarsi.

Dovetti chiamare i miei, che se n’erano andati da non più di un’ora. Il primario aveva un pessimo tempismo.

Lasciai il reparto nel tardo pomeriggio. Due camere più giù era ricoverato un dolcissimo ragazzo palestinese di 22 anni, cresciuto in Italia. Lo avevo incontrato durante il mio secondo ricovero. Ora stava morendo, il trapianto non aveva funzionato.

I suoi genitori mi videro andar via e vollero aiutarmi con i bagagli. Dissi loro che stavo bene, che i miei genitori mi aspettavano fuori. Per me era più importante che stessero con il loro figlio.

La consapevolezza della mortalità che accomuna i pazienti e i loro familiari crea un legame immediato.

I primi passi

Ricominciai a mangiare cibo vero 3 giorni prima di lasciare l’ospedale. Al secondo giorno a casa, riuscii finalmente a fare la cacca per la prima volta in un mese. Chiamai persino i dottori per condividere con loro la notizia.

Ogni 5-7 giorni ero in day hospital.

Stavo andando meglio di molti. Ero viva, che di per sé era come aver già vinto metà della battaglia. Non avevo bisogno di una sedia a rotelle, di un busto o di un bastone, perché le mie ossa stavano affrontando bene il trauma. Gli esami del sangue miglioravano lentamente. Dosi massicce di cortisone tenevano sotto controllo i sintomi della GvHD alla pelle.

Alcune settimane dopo, contrassi il citomegalovirus. Una delle cause del virus è… il cortisone in dosi massicce.

I livelli del sangue cominciarono a calare di nuovo, una reazione normale ai farmaci usati per combattere il virus. Dovetti sottopormi ad altre trasfusioni di sangue e piastrine.

La mia pelle iniziò a sfaldarsi. Cadevano scagliette scure che rivelavano un nuovo strato di pelle sottostante, sempre scuro ma leggermente più chiaro. La maggior parte di coloro che hanno subito un trapianto di staminali ha uno strano colore della pelle, che va da un beige malaticcio al castoro.

Mi gonfiai subito per via delle medicine. Avevo impostato timer e promemoria durante l’arco della giornata per poter prendere correttamente un elenco di medicine lungo una pagina. Dopo due mesi interruppi il cortisone e con questo diminuì anche la fame, mentre la nausea prese il suo posto.

Ero come una neonata: per tre mesi non feci che mangiare, vomitare e dormire. Persi peso.

Mia madre era così preoccupata che iniziò a perdere i capelli. Un giorno che era andata in farmacia a prendermi delle medicine, il farmacista le chiese come stavo e lei scoppiò a piangere.

Otto mesi dopo il trapianto interruppi la chemioterapia per via orale, che aveva tenuto a bada le cellule del mio donatore e aveva tenuto gli attacchi di GvHD al minimo. Era stato come tenere Hans sempre sotto effetto di marijuana, a ritmo ridotto.

Erano state trovate microscopiche tracce della proteina responsabile della malattia nel mio midollo osseo, per cui avevo bisogno che le staminali di Hans si disintossicassero, si svegliassero e facessero gli straordinari. L’unica arma a mia disposizione per impedire alla leucemia di tornare era già dentro di me.

Circa tre settimane dopo aver interrotto la chemioterapia per via orale, la GvHD attaccò di nuovo la mia pelle, ma in maniera lieve. Tre mesi dopo, mi colpì agli occhi.

Nuova vita su Marte

Un anno e due mesi dopo il trapianto, tornai al lavoro, ma part-time.

Non so come abbia fatto: ero esausta, mi accasciavo sul divano appena tornavo a casa nel pomeriggio e ci rimanevo fino a sera. Non so dove abbia trovato la forza di cucinare.

Ripensandoci ora, avrei dovuto aspettare altri sei mesi, ma avevo bisogno dei soldi. Il mio congedo per malattia era terminato, così come tutti i miei giorni di ferie e i permessi.

C’è voluto più di un anno e mezzo perché il mio viso si sgonfiasse dalla ritenzione idrica e tornasse alla normalità.

Il mio sistema immunitario è ancora compromesso, ma sta meglio di prima. Al momento è al 90%, è così da un anno.

Il trapianto ha annullato tutte le mie vaccinazioni, è come formattare un hard disk e riportarlo alle impostazioni di fabbrica.

In ufficio lavoriamo in un open space. Se i miei colleghi stanno male o se stanno male i loro figli, devono tenersi lontani da me. Ad almeno a un metro e mezzo di distanza, visto che i germi non possono viaggiare oltre, a meno che qualcuno non starnutisca.

Al momento la GvHD agli occhi va e viene: ho fastidi continui, fotosensibilità e visione annebbiata. Alcuni giorni va meglio, altri va peggio.

Il cortisone mi ha fatto venire la cataratta, che rende la vista annebbiata un fenomeno più interessante. Ho la sensazione che un velo mi copra gli occhi.

Mangiare è tutta un’altra storia. Prima della leucemia avevo sempre fame. Anche durante la chemioterapia ero affamata, uno degli effetti positivi del cortisone.

Ora il mio appetito è inesistente.

All’inizio ho dovuto imparare a interpretare i segnali della fame: le mani iniziavano a tremarmi e sentivo che mi girava la testa.

Adesso, lo stomaco mi brontola prima di colazione. In rare occasioni, ho delle leggere fitte una o due ore prima di pranzo. Se mangio qualcosa, non avrò fame per tutto il giorno.

Cerco di non rispondere subito a queste sensazioni di vuoto, perché spariscono entro pochi minuti. E in questo modo, dopo posso fare un vero pasto.

Lo scorso mese ho messo su 2 kg. Attualmente peso 55 kg e mezzo, sei in meno di quando sono stata ricoverata in ospedale quattro anni fa.

Non ho cambiato la mia dieta in nessun modo. Penso, finalmente, di star cominciando a sviluppare di nuovo massa muscolare.

Mi è anche venuto il gomito del tennista, per aver provato a montare una mensola. Sono passati sette mesi e continua a farmi male. L’ortopedico mi ha consigliato di fare delle punture di cortisone, ma io odio il cortisone.

Sopravvivere

Sono americana, nata e cresciuta nello stato di New York. Per fortuna vivo e lavoro qui in Italia da quasi 20 anni. A differenza degli States, i miei contributi hanno pagato tutta l’assistenza sanitaria che ho ricevuto. A differenza degli States, qui si riceve assistenza economica quando ci si sottopone a chemioterapia, se si ha una malattia mortale, o se non si è fisicamente in grado di occuparsi di se stessi. Io rientravo in tutte e tre le categorie.

Da qualche mese lo stato ha deciso di sospendere gli aiuti monetari. Il ragionamento è che, anche se la mia salute è ancora a rischio, sono tuttavia in grado di prendermi cura di me stessa, quindi non ho più bisogno del denaro.

Non importa che io lavori ancora part-time, che sia sotto antibiotici e antivirali o che mi stanchi con facilità. Non importa che sia ancora presto per i vaccini attivi (mi mancano il morbillo, la varicella, gli orecchioni ecc.). I no-vax adesso mi fanno paura.

Non importa se la gente pensa che io sia stanca, quando in realtà ho gli occhi così secchi che mi si chiudono da soli. Non importa che io non possa guidare perché non ci vedo bene.

Non importa che io debba indossare una mascherina medica quando prendo i trasporti pubblici, che sono il mio unico mezzo di trasporto per andare e tornare dal lavoro ogni giorno. Non importa che io esca di casa ogni giorno con un occhio aperto e uno chiuso perché, anche con gli occhiali da sole, la luce è troppo forte.

Non importa che io spenda circa 200 euro al mese in gocce oculari (consumo da tre a quattro lubrificanti oculari al mese), vitamine, probiotici per combattere le frequenti infezioni intestinali e saponi per trattare la secchezza di pelle e vagina (sono già in post menopausa).

Dopo anni in cui la gente ha abusato del sistema e ha finto malattie o problemi di salute per avere 500 euro extra al mese, il governo italiano adesso sta applicando un giro di vite nei confronti di tutti. Anche di quelli che hanno davvero bisogno. E certamente non sono la sola, ci sono molti altri come me.

Vado a fare dei check-up ogni due o tre mesi e in media trovo circa settanta persone che aspettano una visita, un check-up o un trattamento giornaliero.

Ho visto quanta gente è affetta da leucemia, linfoma e tutto lo spettro delle malattie del sangue e quanta, a volte, non ce la fa.

I reparti sono sempre pieni. Una persona che conosco ha dovuto cambiare città, perché qui non c’erano letti per il suo trapianto.

Il day hospital è sempre pieno e le attese sono lunghe perché non ci sono abbastanza letti, abbastanza dottori né abbastanza fondi per trovare una cura.

Essere me

Sono single, e lo ero prima della leucemia.

Per fortuna i miei genitori, nonostante siano anziani, sono venuti qui dagli Stati Uniti per aiutarmi tre settimane dopo la diagnosi. Sono arrivati appena ho finito la prima chemioterapia e sono ripartiti dopo essersi presi cura di me per 14 mesi.

Mio fratello abita a Boston e fa l’architetto. Voleva mettersi in congedo dal lavoro per venire ad aiutarmi, quando i miei genitori sono ripartiti. Noi ci siamo opposti, perché sapevamo che avrebbe messo a rischio il suo lavoro.

Ho assunto un’infermiera part-time per quattro mesi, finché non sono stata in grado di fare quasi tutto da sola. Avrei potuto averla full-time, ma volevo abituarmi a fare le cose autonomamente di nuovo, quasi come fosse uno svezzamento.

Adoro il quartiere in cui vivo. I farmacisti chiedevano continuamente come stavo, mentre ero ricoverata. Nei negozi, perfetti sconosciuti si facevano in quattro per aiutare i miei genitori non appena scoprivano per quale motivo fossero qui.

Ben presto, i miei genitori avevano raccontato la mia storia ai proprietari di tutti i negozi che visitavano. Le signore che lavorano al mercato dove di solito faccio la spesa si sono messe a piangere, quando mi hanno rivista dopo il mio primo ciclo di chemioterapia.

Oggi ho una rete che mi assiste se non mi sento bene. Dal mercato mi consegnano frutta e verdura, il minimarket mi porta la spesa e le confezioni d’acqua. Un’impiegata dell’ufficio postale una volta mi ha dato il suo numero di telefono, in caso mi servisse qualcosa. Ho due buoni amici che vivono a dieci minuti di distanza. Se in un negozio non mi vedono per un po’, cominciano a chiedere in giro per sapere come sto.

Allo stesso tempo, penso all’essere sola, a volte. I miei amici sono stati al mio fianco e mi hanno aiutato durante gli alti e i bassi della mia malattia. Ma hanno tutti le loro vite. Ognuno va avanti in modo diverso.

Penso che non sarò in grado di trovare qualcuno con cui passare insieme il resto della mia vita. Chi vorrebbe stare con me, sapendo che potrei avere una ricaduta? La probabilità di una malattia è più alta con me che con una persona che è sempre stata sana.

Non posso truccarmi molto per via dei problemi agli occhi, eppure i miei amici maschi dicono che sono più attraente adesso che prima della leucemia. Forse Hans è un bel ragazzo… sono così potenti le cellule staminali?

Non so se parlare della mia situazione con gli uomini che incontro. Si spaventeranno o riusciranno a passare sopra gli occhi secchi e la pelle macchiata dalla GvHD e a vedere dentro di me?

Le mie aspettative vacillano, e i dubbi sono la mia unica costante.

Riflessioni

Ricordo che una volta, avrò avuto sei o sette anni, ero seduta con mia madre mentre guardava la TV. Durante un talk show, qualcuno discuteva di qualcosa che non capivo, così chiesi a mia madre. Lei si fece seria e mi spiegò che parlavano di una persona famosa che era morta di leucemia, una malattia senza cura.

Nel momento in cui scrivo, so che esiste un modo per andare avanti. I miei medici l’hanno trovato per me. Io l’ho trovato in me, per combattere la mia battaglia con un sorriso. So di essere fortunata ad essermi ammalata solo qualche anno fa e non venti.

In quarant’anni, scienziati, medici e ricercatori hanno trovato un modo per tenere vive me e le persone come me.

Solo negli Stati Uniti, circa 1,3 milioni di persone vivono con una malattia del sangue, o sono in remissione da una malattia del sangue.

Quanti altri anni ci vorranno per trovare una cura? Non lo so, ma considerando i passi avanti fatti dalla tecnologia, ho speranza. È la mia unica opzione.

Questa è la mia storia. Volevo che fosse semplice e ascetica. Sarebbe stato facile scrivere un racconto strappacuore di quello che mi è successo, ma non voglio la vostra compassione.

Voglio condividere com’è vivere la vita quando il sangue di qualcun altro scorre nelle tue vene, come vivo ogni giorno e come ogni giorno continuo il mio viaggio di rinascita e di riscoperta di me stessa.

Mi sento fortunata, perché so che valore ha avere un altro giorno da vivere. La mia storia è una tra tante. Un granello di sabbia su una spiaggia. Un granello di sabbia condiviso con voi.

Grazie per avermi letto. Michelle M.

Traduzione di Alice Daino

Potete leggere l’articolo originale qui 

Foto di: Michelle

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